11 – 21/7: Valjevo – Srebrenica, 92km

Serbia, vita rurale

Lascio Valjevo prendendo la strada per Loznica, verso il confine con la Bosnia. Ho ancora qualche dubbio su come procederà la giornata perchè ho sempre pensato che Srebrenica, la meta della tappa di oggi, fosse un buco infilato in una valle stretta e poco accessibile; ho qualche timore che raggiungerla si riveli un po’ complicato e duro. Ci sono alcune varianti possibili di percorso e le mie altimetrie me ne consigliano una in particolare. Fino ad ora sono state veritiere per cui le tengo in considerazione. Ad Osecina devio a destra su una strada laterale. Fino ad ora è stata una leggera salita di 20km, niente di difficile, seguita da una decina in discesa. Ancora natura aspra e polverosa, caldo e niente attorno, qualche villaggio di poche case di tanto in tanto. La Serbia profonda e rurale si presenta ai miei occhi povera e scalcinata. Ho ancora una quindicina di km di salitella facile, poi ci sarà lo strappo più duro di tutto il viaggio. Pochi km ma da rimpiangere amaramente di non avere ancora la guarnitura tripla.

Campagna serba

A Pecka si inizia a soffrire: tornanti stretti da strada alpina, devo andare a 6-7km/h, di più non è possibile. Allo scollinamento una discesa a precipizio verso  Ljubovija, al confine con la Bosnia. Pochi minuti ancora fino al ponte sulla Drina che porta a Bratunac. Qui il primo cartello “Srebrenica“, in cirillico. Siamo ancora nella Republika Srpska, zona serba della Bosnia. Srebrenica ai tempi della guerra era un’enclave musulmana in un territorio a maggioranza serba. Seguo il cartello e scopro che la strada è solo in leggera salita, non ci sono difficoltà per raggiungere il mio obiettivo. In una decina di km si arriva facilmente nel centro di Srebrenica. A metà strada c’è la fabbrica di Potocari, dove si svolse il dramma del genocidio di più di 8000 bosniaci musulmani rastrellati da villaggi e città della zona e massacrati dalle milizie di Ratko Mladic, il generale serbo che nel suo “palmares” conta il genocidio di Srebrenica, l’assedio di Sarajevo e vari altri efferati crimini di guerra.

Srebrenica, per l’inferno a sinistra.

Pochi km prima, ancora in territorio serbo, lunga la dura salita di Pecka avevo letto su un muro a bordo strada una vecchia scritta a vernice spray:”Ratko Mladic heroj” (in cirillico ovviamente). Mi fa rabbrividire, sapendo chi era il personaggio, e vedendo con i miei occhi il luogo teatro di tanto orrore, di cui fino ad ora avevo solo letto o visto qualche fotografia o qualche video in rete.
Di fronte alla fabbrica c’è il grande cimitero delle vittime di Srebrenica. Se quello di Vukovar era commovente, questo è impressionante ed enormemente più grande. Una distesa di migliaia di tombe, ognuna con il suo ceppo di pietra bianca tipico dei cimiteri musulmani.

8372 (Memoriale di Potocari/Srebrenica)

Il cimitero ospita anche un memoriale fatto da un grande anfiteatro di marmo bianco su cui sono scritti tutti gli 8372 nomi delle vittime. Ogni anno l’11 luglio si tiene una cerimonia commemorativa, mi trovo lì solo dieci giorni dopo e vedrò affissi su pali e muri del centro abitato numerosi piccoli manifesti, come i nostri annunci mortuari, che annunciano una celebrazione per quel giorno, forse privata, citando il nome delle persone a cui è dedicata.
Riprendo la strada per il paese e via via che mi avvicino mi rendo conto che sto entrando all’inferno. Srebrenica è stata l’inferno in terra e ne porta ancora i segni evidentissimi. Le case distrutte o danneggiate non si contano, sono ovunque, mescolate a quelle nuove ricostruite.

Cimitero di Potocari

Passeggiare per il villaggio è qualcosa di indescrivibile e spettrale. Mi infilo in qualche vicolo avvicinandomi ad una grande costruzione e leggo il nome di un hotel. E’ abbandonato e fatiscente, ma è uno di quelli che avevo trovato nella mia lista di hotel prima di partire !!
Una finestra dondola con un cigolio sinistro mossa dal vento. Incrocio gente del luogo, donne col velo. Incontro una vecchina che viene nella direzione opposta alla mia, faccio un cenno di saluto e lei si ferma, mi saluta con calore e inizia a parlare. Mi racconta qualcosa, indica un  gruppo di tombe arrampicate su un terreno a bordo strada; io non capisco assolutamente nulla, parla in serbo-croato ma quel suo “racconto” ha qualcosa di estremamente toccante. Forse mi sta raccontando di un figlio perso in quell’inferno, o di amici e parenti che non sono tornati. I suoi occhi parlano e io ascolto quella lingua così dura che sembra fatta apposta per fare la guerra. Dopo molti minuti si interrompe, mi saluta e va via, lasciandomi una grande tenerezza.

12 – 22/7: Srebrenica – Tuzla, 109km

Srebrenica

Lascio Srebrenica rifacendo in discesa la strada di Potocari. Mi fermo qualche minuto ad osservare di nuovo l’enorme capannone. Proseguo verso Bratunac e riprendo la strada lungo la Drina, sempre dal lato bosniaco. E’ una strada molto tranquilla e pacifica, il paesaggio ispira tranquillità, a dispetto della follia che si è consumata nel luglio del 1995. Il cielo è coperto, il tempo è cambiato e fa un po’ fresco, ma fortunatamente non piove. Costeggio il fiume che a volte si apre in grandi specchi d’acqua. Di fronte, sull’altra sponda, la Serbia, che se non fosse un’ironia un po’ amara, si potrebbe definire “a un tiro di schioppo”.

Fabbrica di Potocari

Mi avvicino a Zvornik, anche questa teatro di massacri ai danni dei musulmani bosniaci nell’Aprile del 1992, con deportazioni e successivi “scambi di case” (per lo più falsi o ottenuti con la coercizione) tra popolazione di etnia musulmana e serba. Durante una sosta per mangiare, fermo ad una stazione di servizio, incontro un uomo sulla sessantina che ha un vecchio motorino addobbato con delle girandole di varie misure e colori, fatte tagliando delle bottiglie di plastica. Si avvicina con fare amichevole e me ne regala una che attacco alla  borsa anteriore. Proseguirà il mio viaggio fino alla fine, girando velocissima al vento.

Valle della Drina, confine Bosnia-Serbia

A Zvornik lascio la Drina e mi immetto sulla strada per Tuzla; qualche piccola asperità da superare ma niente di difficile. Pochi km prima di arrivare in città il tempo peggiora e inizia a piovere; in venti minuti sono completamente bagnato, nonostante l’equipaggiamento da pioggia. Trovo un hotel (credo l’unico della città) e mi ripulisco, ma fuori fa freddo e non ho voglia di uscire, anche se ha smesso di piovere. Ho visto poco di Tuzla, ma quel poco mi ha fatto una grandissima tristezza.

Tuzla fu teatro di una strage di giovani a causa di una granata serba nel 1995.

13 – 23/7: Tuzla – Sarajevo, 130km

Olovo, verso Sarajevo

Lascio la città triste ancora in un clima grigio e freddo, ma per fortuna non piove. Oggi sarà la giornata più dura di tutto il viaggio. 130km e tante montagne mi dividono da Sarajevo. Volendo ci sono alcune possibilità di pernottare in località intermedie ma vorrei arrivare nella capitale bosniaca. La strada non è molto trafficata per cui procedo senza problemi. Sono tre le principali asperità da superare, si deve arrivare prima a più di 600m, poi si scende un po’, si risale fino a 950, si riscende a 500 per risalire fino a 1000. Le salite sono comunque pedalabili, il traffico scarso e le fontane non mancano. Trovo da mangiare in piccoli esercizi commerciali allietati dal sorriso delle fanciulle che gestiscono una “pekara” (panificio) o una “trgovina” (negozio di generi alimentari). Il clima è fresco e si sta proprio bene: questo sembra veramente il “cuore dei Balcani”.

In ricordo delle vittime della guerra in Bosnia (sulla strada per Sarajevo)

Sull’ultima salita vedo per la prima volta i cartelli “MINE ! ZABRANJEN PROLAZ” (mine, vietato entrare), di cui avevo sentito parlare e che mi avevano fatto desistere per anni dall’affrontare questa meravigliosa avventura. Una lunga discesa porta ad una quindicina di km da Sarajevo. Sembra quasi fatta ma non finisce mai: c’è ancora una salita di 10km, poi una discesa e un’altra salitella prima di arrivare. Vicino alla città il traffico è intenso e la strada stretta, in salita e trafficata, diventa una pena. Finalmente si scende per entrare in centro. La città è attraversata dal fiume Miljacka (in verità poco più di un piccolo torrente) ed è incassata in una conca circondata di colline da tre lati.

MINE

Niente di più comodo per bombardarla senza possibilità di scampo. Così fecero i serbo-bosniaci dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996. La vita durante questi quasi quattro anni è raccontata da documenti e oggetti esposti nel Museo storico della Bosnia Erzegovina.

Testimonianze tragiche, fotografie, pagine di giornali dell’epoca, oggetti quotidiani, i viveri donati dall’estero e scarsamente disponibili nei mercati cittadini, quegli stessi mercati che furono teatro di stragi di civili in cerca di qualcosa da mangiare.

Ingresso a Sarajevo

Mi prendo un giorno di pausa per visitare la città. Come già Belgrado, anche Sarajevo sa un po’ di oriente. Della guerra porta i segni visibili su tanti muri scheggiati dalle granate. La città vecchia è un dedalo di stradine popolate di negozi di souvenir; si respira inequivocabilmente un’aria da impero ottomano con a poca distanza i palazzoni moderni della città nuova. In una grande piazza campeggia ancora sul grande marciapiede il logo delle olimpiadi invernali del 1984. Sarajevo era il simbolo della convivenza pacifica tra le popolazioni della Jugoslavia.

Mercato

Racconta il giornalista e scrittore Paolo Rumiz che a Sarajevo, in ogni casa cristiana, c’era una pentola che non aveva mai toccato carne di maiale, sempre pronta per eventuali ospiti musulmani, a testimoniare come la convivenza e il rispetto tra etnie e religioni fosse cosa del tutto normale e parte della vita quotidiana. La città racchiudeva nella sua biblioteca importanti testimonianze della storia balcanica. Questi suoi caratteri di libertà e tolleranza furono, spiega Rumiz (nel libro “Maschere per un massacro“), l’obiettivo di chi usò la guerra per distruggere questa armonia e sopraffare la civiltà dei suoi abitanti per far prevalere un potere che stava perdendo il controllo della Jugoslavia a causa della corruzione dilagante. La biblioteca fu distrutta da un incendio e la popolazione civile subì un assedio lunghissimo, poco giustificabile dalla sola logica militare.

14 – 25/7: Sarajevo – Mostar, 128km

Logo delle olimpiadi invernali Sarajevo 1984

Lascio Sarajevo lungo la via Zmaja od Bosne (“Drago della Bosnia”), la strada per l’aeroporto anche nota come “viale dei cecchini”. E’ la via principale della città nuova, un largo stradone fronteggiato da numerosi palazzi molto alti, sui quali durante l’assedio si nascondevano i cecchini. “Pazi snajper”, “attenzione cecchini”, era il cartello di cartone scritto a mano che gli abitanti mettevano per strada nei punti pericolosi. Andare a comprare qualcosa da mangiare (ammesso di trovarlo), o procurarsi dell’acqua poteva essere una missione senza ritorno, come accadde al mercato di Markale il 5 febbraio 1994, quando le granate serbe uccisero 68 persone.

Tram “americano” (Sarajevo)

Lasciati gli ultimi sobborghi la strada diventa ad un certo punto un’autostrada, tecnicamente parlando vietata alle biciclette. Era una cosa che già sapevo e mi aspettavo. Non c’è alternativa, per cui, in base alla sensibilità di ciascuno si deciderà se procedere o meno. In realtà l’aspetto è ben poco autostradale, almeno secondo i nostri standard, e anche la velocità delle auto è lontana da quella sulle nostre autostrade. Il traffico è molto scarso e per chiudere il quadro è lunga solo 5km. In definitiva, secondo me si può fare senza problemi. Alla fine di questo tratto si riprende la viabilità normale.

Tram alla fragola (Sarajevo)

La strada è in leggerissima salita, che diventerà un po’ più dura dopo 30km, ma sempre senza creare troppi problemi. Si arriva a circa 800m di quota; si scollina in una località chiamata Ivan Sedlo, in corrispondenza di una breve galleria, per poi scendere con una lunga e bella discesa verso Konjic e raggiungere la valle della Neretva. Purtroppo il tempo peggiora, inizia a piovere e dovrò fare almeno 50km sotto l’acqua, mai troppo intensa ma continua; fortunatamente non fa freddo, anzi sto meglio oggi che nei due giorni precedenti, asciutti ma freddini per i miei gusti. A Konjic la strada inizia a costeggiare il fiume Neretva. La valle è spettacolare; il grande fiume procede tra alte pareti rocciose che la giornata di pioggia rende meno brillanti ma dona un’atmosfera ovattata.

Valle della Neretva, direzione Mostar

Dopo pochi kilometri il lago di Jablanica apre la valle in un ampio scenario in cui lo specchio d’acqua si allarga e al contempo si insinua in piccoli fiordi tra la terraferma. Procedo sotto una fitta pioggia, rassegnato a prendermela tutta, visto che non si intravede all’orizzonte nessun segno di cambiamento del tempo, anzi a volte c’è anche vento contrario, per completare l’opera. Incrocio un altro viaggiatore in bicicletta che arriva dalla parte opposta e non invidio il fatto che dovrà farsi sotto la pioggia tutta la salita da Konjic in poi. Col tempo e il passare dei kilometri però qualcosa cambia; vedo qualche traccia di azzurro attraverso le nuvole, la pioggia diminuisce e finalmente cessa.

Mostar

Avvicinandosi a Mostar la valle si apre fino a diventare una grande pianura circondata da colline, ora illuminata da un sole splendente e caldo. Finalmente il tempo è cambiato, l’aria è tersa e il sole brucia di nuovo. Raggiungo la città e sono prontamente accalappiato da un giovane in bicicletta che mi propone una “accomodation” a casa sua. In passato non sempre ho avuto buone esperienze con questo tipo di sistemazione, ma per questa volta decido di farmi convincere. Un breve passaggio per vedere il ponte e poi a casa, dove la sistemazione tutto sommato non è male.

Mostar

Mostar porta evidenti e crudi i segni di una guerra terribile, su decine di edifici sventrati o segnati dai proiettili. Il celebre ponte, ora ricostruito, è da cartolina. Qui ho uno degli incontri più interessanti del viaggio, con un uomo di circa 60 anni, presso un piccolo cimitero che a prima vista sembrava un giardino pubblico. Anche qui tante tombe tutte con le stesse date. Su una panchina sono seduti due uomini e una donna. Passando faccio un cenno di saluto che loro ricambiano. Mi chiedono da dove vengo, uno dei due uomini parla tedesco e iniziamo una conversazione molto interessante. Spiego che sto viaggiando in bicicletta nei Balcani e che sono interessato alle storie della guerra.

Mostar, per non dimenticare

L’uomo mi racconta che in quegli anni viveva lì a Mostar (aveva circa la mia età adesso, successivamente emigrò in Germania per poi tornare) e si dilunga in commenti e riflessioni. Mi mostra la tomba di un suo amico, con il quale viveva nella stessa casa, che fu ucciso dai cecchini un giorno in cui era uscito per procurarsi una batteria di automobile con cui alimentare la radio per tenersi informati. Dice con grande semplicità che un tempo tutti vivevano in pace senza che essere serbi, croati o bosniaci, musulmani o cristiani, interessasse a nessuno. La guerra fu gettata addosso alla gente senza che se ne capissero i motivi.

Dice che da un giorno all’altro il vicino di casa diventò il nemico. Si crea immediatamente un’atmosfera di cordialità, chiacchieriamo per molto tempo perdendo di vista i suoi accompagnatori, che ritroveremo più tardi nei pressi del ponte. Qui ci salutiamo e termino la mia serata a cena in un ristorante consigliato dall’amico bosniaco, che oltre ad un buon pasto offrirà una vista fenomenale sul ponte illuminato dalle luci notturne. Torno alla mia dimora di questa notte e la signora (la madre del giovane in bicicletta) si presenta con un grande piatto di anguria a fette. Al mattino dopo c’è anche una buona e abbondante colazione, segno che le mie raccomandazioni sulle necessità del ciclista sono state recepite.

15 – 26/7: Mostar – Dubrovnik, 150km

Ruderi di guerra a Mostar

Oggi si torna al mare, dove il viaggio è iniziato. I primi 50km sono ancora lungo la Neretva; il fiume scorre lentamente verso la foce, ormai non molto lontana. Si costeggiano luoghi in cui l’acqua è popolata da alghe ed erbe galleggianti, più avanti si passa in mezzo a vigneti e si raggiunge il borgo storico di Pocitelj, di epoca medioevale, arroccato sulla collina con la sua eredità tra impero ottomano e austro ungarico.
La frontiera con la Croazia è vicina e di nuovo scorgo segni di un conflitto latente che cova ancora sotto la cenere. I cartelli stradali riportano i nomi delle località scritti in cirillico (usato in Bosnia) e in caratteri latini (croato), ma le scritte in cirillico sono cancellate coprendole con la vernice spray. Sui cavi elettrici tesi tra due pali ai bordi della strada ci sono a volte delle bandiere croate che pendono sulla strada come striscioni. Siamo in Bosnia ma qualcuno evidentemente pensa che qui dovrebbe essere Croazia.

Mostar, Stari Most

La Neretva è ora molto larga e di un colore blu intenso. Il confine è a Metkovic e in breve raggiungo Opuzen, dove la strada lascia il fiume (ormai prossimo a gettarsi nell’Adriatico) e punta verso sud est, per raggiungere la costa dopo pochi kilometri e una breve salita, in cima alla quale, dopo mille kilometri di pianure, colline e montagne, improvvisamente si rivede il mare. Un mare dal colore intensissimo. La strada viaggia ora su continui saliscendi, alternando il blu del mare da un lato con il verde delle colline e il bianco delle rocce dall’altro lato. Poco distante si vedono distintamente le isole e penisole dell’ultimo estremo lembo della costa dalmata che formano uno scenario semplicemente fenomenale.

La Neretva poco prima di gettarsi nell’Adriatico

La giornata di sole e il cielo terso contribuiscono a creare uno spettacolo dai colori vivissimi. Non molto distante si incontrano in rapida successione ancora due frontiere: la Bosnia Erzegovina ha un piccolissimo lembo di terra (9km) che affaccia sul mare spezzando in due parti la stretta coda della Croazia; tra le due frontiere c’è Neum. Si rientra quindi in Croazia avvicinandosi alla deviazione per Mali Ston e poi costeggiando il lembo di mare racchiuso tra la terraferma e le isole di Jakljan, Sipan, Lopud e Kolocep. La strada viaggia vicino al mare con vari saliscendi senza mai diventare troppo dura. Il traffico è ancora abbastanza tranquillo, anche se ci stiamo avvicinando a Dubrovnik e a zone fortemente turistiche.Viaggio a buon ritmo, oggi la tappa sarà un po’ lunga ma la strada scorre senza problemi sotto le ruote. Ad un certo punto raggiungo Claudio, cicloviaggiatore italiano che ha fatto un tour delle isole e si sta dirigendo anche lui a Dubrovnik. Decidiamo di fare un pezzo di strada assieme; per combinazione nella zona in cui ci incontriamo lui è al kilometro 500 del suo viaggio, io al 1500. La compagnia fa passare meglio i kilometri e raggiungiamo Dubrovnik senza difficoltà. Molto meno facile sarà trovare un posto per dormire: non perchè ce ne siano pochi, ma proprio perchè ce ne sono troppi.

Jadransko More

Innumerevoli affittacamere in case spesso arroccate in alto o in basso da raggiungere con scale poco ciclabili, alberghi imperiali da 350 euro a notte, mille stradine in tutte le direzioni, ma tutte sempre in salita. L’ufficio turistico non è in grado di consigliarci un hotel “normale”, sanno solo indirizzarci dagli affittacamere (che ce li sappiamo trovare da soli, dato che ce n’è uno ogni tre metri); seguiamo dei cartelli che indicano alcuni alberghi ma o non si trovano o accettano solo dalla Jaguar in su e carte di credito “Platinum”. Torniamo indietro (ancora in salita) e finalmente troviamo il posto giusto, non propriamente economico ma comunque accettabile. La ricerca è stata decisamente lunga e stancante, i km a fine giornata sono 150 e appena arrivato in camera la fame si fa sentire in modo prepotente; dovrò mangiare l’ultima frutta residua della mia scorta per riuscire ad arrivare ad ora di cena.